Vabbè.
Maria Antonietta era
un tipo piuttosto eccentrico, si sa.
Roba che se le
avessero tagliato la lingua da piccola, probabilmente si sarebbe salvata la
testa.
Tuttavia
il panuncolo brioscioso che si trova in commercio non c'è stato verso che mi
andasse giù, fin da subito.
Molti prodotti da forno in commercio sono
buonissimi, ma il pane. Gesussanto, il pane no. Pare di mangiar segatura,
sembra di avere in bocca i bioccoli di polvere che si fanno sotto il comò, è
roba da chiodi.
Premessa:
io panifico compulsivamente in casa, da oltre dieci anni. E’ la prima cosa che
ho imparato, il mio cavallo vincente, il mio orgoglio di chef. Nel tempo, poi - essendo genovese - mi sono specializzata in tutte le declinazioni di focaccia
immaginabili.
Casa mia, per gli amici, equivale ad un buon fornaio di riviera,
aperto anche la domenica.
...ironia
della sorte.
Ma
c’è di buono che tutta quest’esperienza mi ha aiutata, nel tentativo di
ottenere un buon pane senza glutine.
Mi piacerebbe tanto assistere al primo
tentativo aglutinato di chi non abbia mai panificato in precedenza: se chi
legge corrisponde alla descrizione, mi contatti.
Sono disposta a pagare.
Sono disposta a pagare.
Primo
tentativo.
A
sei minuti netti dall’inizio ho scagliato un grumo di colla di due chili sul
parquet, strillando impazzita.
E ho trascorso i successivi due giorni a darci
dentro di spatola da imbianchino per cavarlo via dai nodi del legno.
Raggiunto
il dodicesimo minuto, non riuscendo più a staccare le mani dall’orrido pappone
vinilico, ho chiesto soccorso a mio marito che mi ha cavata d’impaccio buttando
di peso me e la creatura raccapricciante sotto la doccia.
La maledetta palla di
gomma ha intasato i tubi e a tutt’oggi - di tanto in tanto - segue a
rigurgitare bolle d’amido sotto il tappetino blu.
Terzo
tentativo.
Ingoio
un boccone d’orgoglio delle dimensioni del Liechtenstein, e decido di seguire i
consigli di chi prima ci è passato: acquisto una macchina del pane, questa.
Ho
sempre aborrito i robottini magici che ti si siedono sul bancone e promettono
di sostituirsi a te, alle tue mani, alla tua sapienza.
Tuttavia l’impasto senza
glutine e la successiva lievitazione (per i motivi che vi ho spiegato qui) presentano una serie di difficoltà oggettive, che nella camera di impasto e
lievitazione della macchina vengono ridotte dalla temperatura controllata e dal
movimento costante e regolare delle pale.
Detto
ciò: seguo le istruzioni, doso gli ingredienti, quello sgraziato monolocale di
plastica prende a lavorarci su, con un roboante vunci vunci vunci di pale e motori.
Io
piglio un libro, ostento un sopracciglio alzato in segno di spiccato
scetticismo, e mi rilasso.
Due
ore dopo quel che ne esce è un calco del cestello, pallido e malsano, odoroso
di lievito e plastica, bruciato in crosta e crudo dentro, con un cratere
centrale a inopportuna forma di sorriso. Che nemmeno il gatto, giuro.
Mi
prendo una settimana di pausa. Dobbiamo riflettere.
Ti chiamo io.
Quarto
tentativo.
Decido
di utilizzare la macchina solo per impastare e lievitare il mostro. Al resto ci
penso io. Raccatto matterello e spianatoia nuovi (il legno assorbe ogni più
piccola cosa, dev’essere ad uso esclusivo per non incorrere in contaminazioni)
e attendo paziente che il monolocale mi consegni il panetto.
Pensavate
di essere giunti al passo decisivo, alla soluzione finale?
Ehm. No.
Un’altra
difficoltà della panificazione aglutinata è l’acqua, perché le farine utilizzabili
riescono ad amalgamarsi e lievitare solo con dosi smodate di liquidi. Per
questo motivo l’impasto è appiccicoso come bostik, è l’unico modo per garantire
al pane in lavorazione una struttura e - una volta cotto - una buona
consistenza. In questo senso i grassi aiutano molto, l’olio rende l’impasto più
malleabile e meno colloso.
Detto
ciò: il panetto - che appariva ingenuo, gonfio, quasi simpatico nel cestello
appena scoperchiato - una volta adagiato sul piano di lavoro si è esibito in un
tripudio di bolle semiliquide, anfratti vinilici e tunnel oleosi, fino a che -
dopo essersi ostinatamente aggrappato alla spianatoia - ha collassato in un
florilegio di burp.
Troppa
acqua.
Il
tentativo di sbatterlo in una teglia, ungerlo come un moribondo e infilarlo in
forno è stato vano. Il forno - abituato troppo bene, modestie a parte - si è
sollevato sullo zoccolo, ha staccato la spina, ha aperto lo sportello e me l’ha
vomitato sul gres.
Era
così comprensibile, poveraccio, così meschino da parte mia, che gli ho fatto
una foto.
Quinto
tentativo.
Così
che, prima di rimandarvi alla prossima puntata, uno spiraglio di speranza animi
i vostri sguardi atterriti.
…e
quindi uscimmo a riveder le stelle.
Corrette
le dosi di liquidi, e oliate le mani come quelle d’un elettrauto, sono infine
riuscita a sfornare i miei primi panini.
Oddio, bruttini, per carità. E a poche
ore dal parto, già gommosi come palle da tennis.
Però,
veri. Saporiti, odorosi di farina, lucidi d’olio buono.
Un quasi pane. Un
paniccello.
Roba
da cominciare a prender coraggio.
Date
un’occhiata, intanto.
° primissimi panini ° |
Al
prossimo post vi conduco nei territori incantati del Pane.
Quello con la
maiuscola.
Divertitevi.
MamaChiarina
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