giovedì 22 marzo 2012

...CHE MANGINO BRIOCHES! (prima parte - o di come scamperete alla catastrofe)


Vabbè. 
Maria Antonietta era un tipo piuttosto eccentrico, si sa.
Roba che se le avessero tagliato la lingua da piccola, probabilmente si sarebbe salvata la testa.
Tuttavia il panuncolo brioscioso che si trova in commercio non c'è stato verso che mi andasse giù, fin da subito. 
Molti prodotti da forno in commercio sono buonissimi, ma il pane. Gesussanto, il pane no. Pare di mangiar segatura, sembra di avere in bocca i bioccoli di polvere che si fanno sotto il comò, è roba da chiodi.
Premessa: io panifico compulsivamente in casa, da oltre dieci anni. E’ la prima cosa che ho imparato, il mio cavallo vincente, il mio orgoglio di chef. Nel tempo, poi - essendo genovese - mi sono specializzata in tutte le declinazioni di focaccia immaginabili. 
Casa mia, per gli amici, equivale ad un buon fornaio di riviera, aperto anche la domenica.
...ironia della sorte.

Ma c’è di buono che tutta quest’esperienza mi ha aiutata, nel tentativo di ottenere un buon pane senza glutine. 
Mi piacerebbe tanto assistere al primo tentativo aglutinato di chi non abbia mai panificato in precedenza: se chi legge corrisponde alla descrizione, mi contatti. 
Sono disposta a pagare.

Primo tentativo.
A sei minuti netti dall’inizio ho scagliato un grumo di colla di due chili sul parquet, strillando impazzita. 
E ho trascorso i successivi due giorni a darci dentro di spatola da imbianchino per cavarlo via dai nodi del legno.
Secondo tentativo.
Raggiunto il dodicesimo minuto, non riuscendo più a staccare le mani dall’orrido pappone vinilico, ho chiesto soccorso a mio marito che mi ha cavata d’impaccio buttando di peso me e la creatura raccapricciante sotto la doccia. 
La maledetta palla di gomma ha intasato i tubi e a tutt’oggi - di tanto in tanto - segue a rigurgitare bolle d’amido sotto il tappetino blu.

Terzo tentativo.
Ingoio un boccone d’orgoglio delle dimensioni del Liechtenstein, e decido di seguire i consigli di chi prima ci è passato: acquisto una macchina del pane, questa.
Ho sempre aborrito i robottini magici che ti si siedono sul bancone e promettono di sostituirsi a te, alle tue mani, alla tua sapienza. 
Tuttavia l’impasto senza glutine e la successiva lievitazione (per i motivi che vi ho spiegato qui) presentano una serie di difficoltà oggettive, che nella camera di impasto e lievitazione della macchina vengono ridotte dalla temperatura controllata e dal movimento costante e regolare delle pale.
Detto ciò: seguo le istruzioni, doso gli ingredienti, quello sgraziato monolocale di plastica prende a lavorarci su, con un roboante vunci vunci vunci di pale e motori.
Io piglio un libro, ostento un sopracciglio alzato in segno di spiccato scetticismo, e mi rilasso.
Due ore dopo quel che ne esce è un calco del cestello, pallido e malsano, odoroso di lievito e plastica, bruciato in crosta e crudo dentro, con un cratere centrale a inopportuna forma di sorriso. Che nemmeno il gatto, giuro.

Mi prendo una settimana di pausa. Dobbiamo riflettere. 
Ti chiamo io.

Quarto tentativo.
Decido di utilizzare la macchina solo per impastare e lievitare il mostro. Al resto ci penso io. Raccatto matterello e spianatoia nuovi (il legno assorbe ogni più piccola cosa, dev’essere ad uso esclusivo per non incorrere in contaminazioni) e attendo paziente che il monolocale mi consegni il panetto.
Pensavate di essere giunti al passo decisivo, alla soluzione finale? 
Ehm. No.
Un’altra difficoltà della panificazione aglutinata è l’acqua, perché le farine utilizzabili riescono ad amalgamarsi e lievitare solo con dosi smodate di liquidi. Per questo motivo l’impasto è appiccicoso come bostik, è l’unico modo per garantire al pane in lavorazione una struttura e - una volta cotto - una buona consistenza. In questo senso i grassi aiutano molto, l’olio rende l’impasto più malleabile e meno colloso.
Detto ciò: il panetto - che appariva ingenuo, gonfio, quasi simpatico nel cestello appena scoperchiato - una volta adagiato sul piano di lavoro si è esibito in un tripudio di bolle semiliquide, anfratti vinilici e tunnel oleosi, fino a che - dopo essersi ostinatamente aggrappato alla spianatoia - ha collassato in un florilegio di burp.

Troppa acqua.
Il tentativo di sbatterlo in una teglia, ungerlo come un moribondo e infilarlo in forno è stato vano. Il forno - abituato troppo bene, modestie a parte - si è sollevato sullo zoccolo, ha staccato la spina, ha aperto lo sportello e me l’ha vomitato sul gres.

Era così comprensibile, poveraccio, così meschino da parte mia, che gli ho fatto una foto.


Quinto tentativo.
Così che, prima di rimandarvi alla prossima puntata, uno spiraglio di speranza animi i vostri sguardi atterriti.

…e quindi uscimmo a riveder le stelle.

Corrette le dosi di liquidi, e oliate le mani come quelle d’un elettrauto, sono infine riuscita a sfornare i miei primi panini. 
Oddio, bruttini, per carità. E a poche ore dal parto, già gommosi come palle da tennis.
Però, veri. Saporiti, odorosi di farina, lucidi d’olio buono. 
Un quasi pane. Un paniccello.
Roba da cominciare a prender coraggio.

Date un’occhiata, intanto.

° primissimi panini °
















Al prossimo post vi conduco nei territori incantati del Pane. 
Quello con la maiuscola.

Divertitevi.

MamaChiarina

Nessun commento:

Posta un commento